ENEL, ENI, CRISI ENERGETICA E POLO ENERGETICO LIVORNESE


PREMESSA

I combustibili fossili, come mai prima, sono non solo al centro della geopolitica mondiale e degli assetti di potere finanziari, politici e militari, ma anche la causa principale della maggior parte dei conflitti in corso (che l’attuale papa definisce “guerra mondiale”).

L’aumento dei prezzi ha alimentato l’enorme accumulazione dei capitali nelle casse delle multinazionali occidentali, nelle aziende di stato e negli oligopoli di regimi corrotti, monarchie assolute mediorientali o regimi post sovietici (dove il solo petrolio costituisce circa il 50% delle entrate statali).

Sono i petrodollari della finanza internazionale che ha marginalizzato l’economia reale e trasformato il lavoro in variabile secondaria: è il controllo delle risorse, innanzitutto energetiche, che ha permesso e permette alla finanza internazionale di accumulare le sue grandi ricchezze.

Il lavoro non è più centrale – si può delocalizzare ovunque – e la sinistra, che con conflitti sociali e politici ha condizionato il capitale per oltre un secolo si è in genere “adeguata” alla finanza, che provoca la destabilizzazione della stessa economia globale di intere aree geografiche ovvero ciò che da anni chiamiamo crisi.

Crisi, in questi giorni evidente a tutti, è crisi del sistema energetico, nel mondo come a Livorno: i recentissimi crolli dei prezzi fanno piacere al momento di fare il pieno di benzina ma, alla lunga, devono preoccuparci. Basta guardare il loro andamento dal 1946 a oggi.

Tabella1

A un breve periodo di prezzi bassi causati dall’attuale pesante guerra di mercato sui combustibili fossili seguirà, probabilmente, un nuovo equilibrio, determinato innanzitutto dai paesi emergenti (a partire dalla Cina), che in un decennio hanno aumentato vertiginosamente i propri consumi. Una tendenza destinata a salire.

Intanto è comunque guerra (di mercato) tra Arabia Saudita e l”alleato” USA a causa dello shale oil: il brent sotto i 70 dollari a barile mette fuori mercato il nuovo, costoso (70/80$) “eldorado petrolifero” Americano. Ma pure sul gas è guerra tra emirati, a partire dal Qatar, e Russia; e sono proprio gli emirati, impossibilitati, per via della distanza e della necessità di attraversare aree in conflitto, al trasporto in Europa su gasdotti, a spingere per ottenere contratti di fornitura con i grandi gruppi europei (come E-On, presente nell’Olt) che trasportino via mare. Intanto tra Russia e Ue lo scontro politico-commerciale è aperto.

Tutto ciò senza contare i conflitti armati veri e propri, sempre nelle stesse aree, per controllare estrazione e trasporto.

Immagine2È in questo conteso globale che si inserisce la crisi che a Livorno porta alla definitiva chiusura della centrale Enel, mentre per la raffineria Eni si preannuncia, a mezzo stampa e interviste, una riconversione quale terminale gasiero di Gnl: quali motivi sottendono questa proposta?

Se la capacità massima dell’Olt è di 3,75 miliardi di mq (intorno al 4% dei consumi nazionali), quella dei diversi gasdotti in progetto è ben superiore; si va dai 10 miliardi di mc/anno del Tap (che potrebbero essere portati a 30 senza nuove condutture) ai 23 del Nabucco e ai 30 del South Stream, che – è notizia di oggi – Putin blocca: difficile pensare che Eni, E-on o Edison non ne sapessero nulla. La portata annua media di un gasdotto potrebbe coprire dal 15 al 45% del fabbisogno nazionale (invece del 4% circa dell’Olt). L’ipotesi che l’Olt, allo stato attuale, con capacità annuale molto modesta, risulti molto marginale e forse pure antieconomico appare quindi fondata.

Fonti vicine all’Eni confermerebbero che la mancata realizzazione di tutti gli 8 terminal offshore previsti per l’Italia dal governi precedenti contro i “soli” tre, tra cui Livorno, e l’estrema incertezza sulla realizzazione (soprattutto in tempi rapidi) dei 5 che mancherebbero (con una decisione, come al solito, imposta ai territori ed alle persone), insieme alle difficoltà che i diversi progetti di gasdotti incontrano e che avrebbero comunque tempi lunghissimi, sembrano queste le maggiori preoccupazioni di colossi energetici e governi nazionali e regionali, incapaci anche solo di pensare alternative già concretamente praticabili: le energie alternative, per l’appunto, e l’efficienza energetica. Sarà forse perché queste ultime soluzioni sono troppo strettamente legate a un sistema e a pratiche che vedono il gruppo coinvolto in inchieste di corruzione per circa 1000 milioni di euro in tangenti in diversi paesi?

A Livorno da una parte possiamo accogliere positivamente la notizia della chiusura della centrale Enel del Marzocco: positivamente sia perché, sembra, non comporta licenziamenti, perché i lavoratori verrebbero trasferiti in altre unità produttive Enel dell’area pisana-livornese, e poi perché l’impianto è in condizioni di particolare obsolescenza, essendo com’è tra i più inquinanti a livello nazionale (ricordiamo la sua, sia pure indiretta, responsabilità in disastri gravissimi come quello della nave Erika che nel 1999, trasportando olio combustibile destinato appunto alla centrale Enel livornese, affondò di fronte alle coste francesi inquinandone 400 chilometri e causando la morte di oltre 150.000 uccelli marini).

Se confermata in questi termini la decisione di Enel non può che essere salutata con sollievo, specie se come pare sarà legata alla possibile riconversione dei lavoratori nelle attività di Enel Green Power, con diverse sedi tra Pisa e Livorno, anche se la stragrande maggioranza dei suoi investimenti in energia pulita (che generano ottimi utili, riutilizzati per risanare le pesanti perdite causate da quelli nel nucleare in Slovacchia e in Europa dell’est) purtroppo avviene all’estero. Una strategia industriale nel suo complesso più che discutibile e che dovrebbe essere radicalmente rivista, anche se una volta tanto, forse, a rimetterci non è direttamente il nostro territorio.

Estremamente critica e negativa, invece, la politica industriale dell’altro grande gruppo energetico italiano, di cui lo Stato è il maggior azionista: l’Eni, che non a caso ha pesanti difficoltà di bilancio che vuole “risanare” con vendite di società, chiusure e, temiamo, licenziamenti. Gli investimenti di Eni sono quasi esclusivamente concentrati sempre e solo nelle fonti fossili, con risultati disastrosi – come per gli 8,2 miliardi di euro investiti senza risultati nel Mar Caspio. Tra i grandi gruppi petroliferi, per altro, l’Eni – quinto a livello mondiale – è forse quello che investe meno nelle rinnovabili, e quasi esclusivamente nei biocarburanti: ma per obblighi precisi imposti dalla Ue, non certo per strategia industriale.

Qual è, in questo contesto, il destino della raffineria di Livorno? Ecco la domanda che poniamo alla Società, al governo suo primo azionista e alla regione Toscana (che ha precise competenze in materia energetica), anche vista la grave crisi del comparto industriale che in città registra uno stillicidio continuo di chiusure e licenziamenti, oramai insostenibile. La vendita tout court? Senza bonifica dell’area? O addirittura un secondo terminal Gln dopo l’Olt?

Questa città ha già dato troppo in termini di inquinamento e salute: e, ora, di licenziamenti.

QUALE RICONVERSIONE PER IL NOSTRO SISTEMA ENERGETICO?

La riconversione del sistema produttivo livornese non può ignorare la presenza della raffineria, con 450 dipendenti diretti e oltre 300 nell’indotto). Occorre quindi progettare la sua transizione, rompendo innanzitutto con il principio che Livorno debba essere il polo energetico della Toscana. Ogni comunità può e deve tendere all’autoproduzione dell’energia che le è necessaria: tale autoproduzione, introducendo rinnovabili ed efficienza, diventa possibile, fatti salvi gli scambi a livello regionale tra aree con più biomasse, più vento, più idroelettrico o geotermia.

La Germania ha già avviato un programma di riconversione energetica e abbandono del nucleare fissando una data, il 2050, anche se non mancano le spinte per passi indietro.

La riconversione è ancor più possibile se attuata all’interno del passaggio dall’attuale sistema di produzione e consumo a un’economia non più basata sul principio, non sostenibile, della crescita illimitata. Occorre quindi diffondere, favorire e praticare un’economia “sociale”. Tra i problemi da affrontare, oltre al necessario cambiamento culturale, quello del credito, perché finanza “istituzionale” ed economia sociale sono incompatibili. Va detto che in Italia la finanza etica è quasi inesistente: andrebbe seguita la strada dell’azionariato diffuso, prendendo per esempio spunto da diverse esperienze di cooperative energetiche e comunità energeticamente indipendenti.

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Occorre investire sulla “tecnologia della decrescita”, in grado di far risparmiare risorse naturali, energia e soprattutto rifiuti. Le imprese devono puntare a prodotti facilmente riciclabili, per provare a creare un ciclo di riutilizzo delle risorse naturali consumate quotidianamente e ridurre al massimo i rifiuti prodotti (per dirne una: gli imballaggi). È necessario introdurre politiche, anche fiscali, che incentivino il risparmio energetico e liberalizzare la produzione di energia su piccola scala e decentrata, ricorrendo, ad esempio, a impianti di co-generazione, al mini-idroelettrico e al mini-eolico. Combattere gli sprechi energetici, sia nel pubblico sia nel privato, deve diventare la priorità, e a breve termine.

Anche l’occupazione deve essere una priorità: però dobbiamo smetterla di parlare genericamente di “lavoro” e iniziare a parlare di “lavoro utile”, cioè orientato a ridurre gli sprechi. Sì quindi alla ristrutturazione energetica dell’edilizia, sì alle energie rinnovabili, sì alla riduzione e al recupero dei rifiuti, sì alle filiere corte alimentari e industriali, il tutto in un’ottica territoriale/distrettuale. Meno trasporti privati e più trasporto pubblico. Meno costi. Meno sprechi.

Invece di chiudere le fabbriche di automobili e licenziare chi ci lavora le si potrebbe riconvertire nella produzione di sistemi, anche per uso domestico, che riducano i consumi energetici producendo negawatt o che ne registrino la produzione, contatori e rete elettrica intelligente (lo scorso anno l’agenzia federale statunitense che regola la trasmissione di energia elettrica ha emanato un controverso decreto secondo il quale l’energia che i consumatori non utilizzano, denominata “negawatt”, dovrebbe avere, nei mercati elettrici all’ingrosso, lo stesso valore dell’energia che viene prodotta. Ciò significa che i servizi pubblici saranno presto costretti a pagare i clienti importanti, e infine i consumatori, che risparmiano energia nelle ore di punta. L’idea è quella di ridurre la domanda di elettricità invece di mettere in moto più turbine. Per riuscirci sarebbe necessaria una rete elettrica intelligente, attraverso cui consumatori e servizi pubblici si scambiano informazioni in tempo reale circa costi e consumi dell’energia. Secondo l’agenzia tutto ciò potrebbe ridurre in maniera significativa il bisogno di carbone o di centrali nucleari), o in quella di componenti e/o di veicoli elettrici o ibridi, da alimentare con E.E. con le rinnovabili.

I negawatt possono essere “prodotti” migliorando coibentazione ed efficienza energetica degli edifici, che in Italia, per l’arretratezza del comparto, sono mediamente di classe f: si potrebbe passare alla classe b per i vecchi e alla a per i nuovi, ricorrendo alle varie, numerose tecnologie solari, all’alta efficienza, costruendo case passive, incentivando carsharing e carpooling, rilocalizzando le filiere produttive, preferendo i trasporti su rotaia a quelli su gomma e incoraggiando l’uso dei mezzi pubblici.

Come procedere? In tutti i modi e in qualsiasi direzione possibile. Per procurarsi le stesse cose non è detto che si debba ricorrere sempre e comunque al mercato: per avere tutti quello che è necessario si può consumare meno e meglio, autoprodurre e promuovere lo scambio di beni e competenze. Si può, in poche parole, socializzare l’economia.

RICONVERTIAMO E TRASFORMIAMO LA RAFFINERIA ENI IN UN POLO DELLE ENERGIE RINNOVABILI – QUALE LABORATORIO PER UNA NUOVA POLITICA INDUSTRIALE

Alla città, alle forze sociali e politiche avanziamo una proposta; al governo comunale, regionale e nazionale facciamo una richiesta.
Un polo industriale non si crea dal nulla: per realizzare progetti condivisi serve un tessuto, una rete di soggetti da individuare, far nascere e crescere, attivare, agevolare e coinvolgere.

Ma questo tessuto almeno in parte già esiste. Abbiamo già, per esempio:

  • un piccolo distretto di aziende che lavora sull’idrogeno, tra Pisa e Livorno;

  • un altro distretto che lavora nella vetroresina e nelle fibre composite, ancora tra Pisa e Livorno ;

  • tutta la cantieristica nella fascia costiera;

  • un insieme industriale siderurgico e di carpenteria pesante, a Piombino;

  • buona parte dei centri di ricerca sulle energie rinnovabili di Enel Green Power, sempre tra Pisa e Livorno.

All’Eni (che, ricordiamo, è a controllo pubblico), data la riduzione dei quantitativi di combustibili fossili lavorati dalla raffineria e la preannunciata vendita, nonché al Governo, alla Regione e al Comune chiediamo di attivarsi per realizzare un piano di riconversione che trasformi area e impianto in un POLO DELLE ENERGIE RINNOVABILI E DELL’EFFICIENZA ENERGETICA che punti a coinvolgere soggetti pubblici e privati, operare come incubatrice di start up e far così nascere e crescere nuove realtà, attivando e agevolando progetti, impianti e attività diversificate nel settore delle rinnovabili, dell’efficienza e del risparmio energetico, per la città e tutta l’area – non solo quella costiera – della regione.

Il gruppo Eni già ora non si limita a produrre e vendere carburanti da fonti fossili; produce anche energia elettrica, fornisce servizi di installazione e manutenzione di impianti termici e altro ancora. Potrebbe dunque diversificare ulteriormente ed essere finalmente presente in questo decisivo settore. Non può abbandonare un territorio, dopo averlo usato nel peggiore dei modi, e lasciare ad altri (se mai) solo pesanti eredità.
In ogni caso la crisi industriale della città e’ anche la crisi del polo energetico di Livorno, crisi che si può superare non certo ripetendo scelte sbagliate e fallimentari come l’Olt, in cui sperperare altre risorse pubbliche, né puntando sempre e solo sulle fonti fossili.

Occorre una svolta, tanto nel Paese quanto a Livorno, e puntare sulle alternative al petrolio: efficienza energetica e fonti rinnovabili.

Dobbiamo raccogliere risorse pubbliche – fondi europei, nazionali e regionali – da affiancare a quelle dell’Eni, per un piano di riconversione che le logiche del mercato sono le prime a volere dall’Eni stessa: se l’Ubs stima che nei prossimi dieci anni gli investimenti nelle rinnovabili arriveranno a 6.000 miliardi di euro, superando così del 55% quelli dei dieci anni precedenti, ci chiediamo: il quinto gruppo petrolifero mondiale può (a parte i modesti obblighi sui biocarburanti imposti dall’Ue) starne fuori? .

Il governo nazionale ha poi una particolare responsabilità, in quanto lo Stato è azionista di maggioranza dell’Eni e non può pensare di imporre ancora una volta alla città una riconversione verso soluzioni come l’impianto offshore di rigassificazione, che hanno già dimostrato di essere fallimentari e avere ricadute occupazionali modeste e non accettate dalla città.
Le responsabilità del governo regionale sono presto dette: non ha raggiunto proprio gli obbiettivi dei Piani Energetici Regionali, grazie tra l’altro al curioso principio per cui il cosiddetto impatto visivo si applica agli impianti con fonti rinnovabili (che la regione, proprio per questo motivo, in genere non approva) e non ai progetti autostradali, come la Tirrenica: 300 chilometri di nuova autostrada sono forse invisibili?
La nuova amministrazione comunale, invece, deve concretizzare gli impegni programmatici elettorali in cui affermava di puntare a far diventare Livorno un “Polo europeo delle Energie rinnovabili”. I primi passi in questa direzione, contenuti nel Piano d’azione per l’energia sostenibile (Paes), sono molto discutibili: il Paes è confuso e generico. Presenta sì aspetti apprezzabili ma ne ha altrettanti più che criticabili. Da una prima analisi riteniamo di poter affermare che un intervento oculato di “spending review ” consentirebbe, a parità di riduzione delle emissioni, di risparmiare risorse importanti e destinarle sia a un fondo di solidarietà per i lavoratori di aziende in chiusura sia a interventi ben più efficaci, come il risparmio energetico negli edifici pubblici che non solo presentano classi di efficienza energetica disastrose ma molto spesso non sono neppure a norma con le leggi in materia.
Livorno è stata polo energetico regionale : i principi della generazione diffusa devono portare tutte le aree regionali ad autoprodurre il più possibile, tramite risorse rinnovabili locali, l’energia necessaria, da consumare poi con la massima efficienza.

LE POSSIBILI FILIERE E INIZIATIVE NELL’AREA ENI

Le linee di azione di una riconversione della raffineria in polo per le rinnovabili e l’efficienza possono e devono essere diverse. Per produrre energia pulita e fornire servizi di efficienza energetica con elevata intensità occupazionale non esistono né un’unica strada né un’unica soluzione impiantistica. Bisogna percorrerne diverse, adottare diverse tecnologie per diverse soluzioni, pure da integrare tra loro. Indichiamo dunque, per iniziare, le seguenti linee di azione:

  • elaborare e avviare un piano per la messa a coltura, su terreni incolti di regione/demanio e su terreni ex agricoli privati, di colture energetiche locali senza ricorrere a prodotti chimici o a quantitativi idrici eccessivi; riconvertire l’impiantistica della raffineria, che lavorerà le colture energetiche per produrre biodiesel/biocarburanti;

  • realizzare il Paes di Livorno per arrivare a una piattaforma che raccolga la biomassa legnosa nei boschi di proprietà regionale/demaniale, gli sfalci e le potature destinandole alla produzione di energia;

  • elaborare e avviare un piano regionale per la raccolta degli oli alimentari esausti (che comprenda utenze residenziali, turistico-alberghiere e ristorazione), seguendo esperienze positive quali Bolzano e Austria;

  • riconvertire l’impiantistica della raffineria per trasformare in biocombustibili gli oli esausti;

  • favorire la creazione di una società consortile/cooperativa ad hoc che coltivi, raccolga e trasporti biomassa a fini energetici e non e raccolga gli oli alimentari esausti, con un piano di formazione di personale dell’attuale raffineria:

  • installare nell’area della raffineria un grande impianto a energia eolica per rifornire le utenze pubbliche della città. La bolletta elettrica di Comune e Asl, infatti, è di quasi 8 milioni di euro: la si può dimezzare ricorrendo all’energia prodotta nell’area Eni. Il risparmio consentirebbe sia l’accesso ai finanziamenti bancari tradizionali (attivando però anche i finanziamenti europei a fondo perduto) sia il finanziamento di una parte significativa dello stesso piano di riconversione;

  • approfondire l’ipotesi di progetto industriale per nuovi tipi di centrali eoliche offshore nell’alto Tirreno, al largo e in piattaforme galleggianti su fondali profondi;

  • attivare un servizio di Esco (interventi di miglioramento dell’efficienza) iniziando dal patrimonio immobiliare pubblico (Eni già fornisce servizi impiantistici, non finalizzati però al risparmio energetico) e consorziando le piccole e medie aziende specializzate già attive nell’area grazie a un piano finanziario adeguato.

Le possibile ricadute occupazionali sono difficili da quantificare a priori: ma il solo progetto per il nuovo tipo di centrali eoliche – offshore e galleggianti su mari profondi – potrebbe attivare lavoro nella fascia costiera per circa 5000 occupati in carpenteria pesante, cantieristica, materiali compositi e affini

Per affrontare e superare la crisi, che non è solo di Livorno, occorre percorrere strade nuove (per l’Italia).
Le vecchie soluzioni sono già state un fallimento. Non le vogliamo.

Buongiorno Livorno rifiuta le solite ricette che hanno già ampiamente dimostrato essere loro stesse la prima causa dell’attuale insostenibile situazione, e propone ai cittadini ed alla città, alle Amministrazioni Locali, alle forze politiche, sociali ed economiche un confronto pubblico per avviare un percorso condiviso che dia nuove risposte adeguate, in sintonia con le migliori esperienze europee, alla crisi drammatica, e per costruire una prospettiva di lavoro e di futuro sostenibile.

La Raffineria ENI (da http://www.eni.com/)

La raffineria Eni di Livorno, con una capacità di raffinazione primaria bilanciata su 84,000 barili/giorno e un indice di conversione dell’11% produce prevalentemente benzine, gasoli, olio combustibile per bunkeraggi e basi lubrificanti. Oltre agli impianti di distillazione primaria, inoltre, ha due linee di produzione di lubrificanti. Il collegamento con le strutture portuali di Livorno è garantito dalla presenza di autostrade, ferrovie e un oleodotto, mentre i depositi di Firenze sono connessi attraverso due oleodotti: ciò ottimizza le attività di ricezione, movimentazione e distribuzione dei prodotti.

In un mercato caratterizzato dal continuo calo dei margini e dall’eccesso di capacità di raffinazione in Europa, Eni incrementa l’obiettivo di riduzione della propria capacità dal 35% a oltre il 50%, conseguibile convertendo una parte degli impianti di raffinazione in Italia e riducendo ulteriormente la presenza nel resto dell’Europa. Questo consente di confermare, per il settore Refining&Marketing, il breakeven (Per raggiungere il punto di pareggio l’impresa dovrà o ottenere nuovi finanziamenti o liquidare alcune delle sue attività per soddisfare i suoi costi fissi) del flusso di cassa operativo a fine 2015 e dell’Ebit(Earnings Before Interests and Taxes. Esprime il reddito che l’azienda è in grado di generare prima della remunerazione del capitale, comprendendo con questo termine sia il capitale di terzi, indebitamento, sia il capitale proprio, patrimonio netto) al 2016, malgrado il peggioramento dello scenario.

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Nel 2013 la divisione Refining&Marketing ha ampliato la perdita netta; circa 232 milioni di euro (179 nello scorso esercizio). Tale risultato riflette il crollo del margine di raffinazione, dovuto alla scarsa domanda di prodotti raffinati e all’eccesso di capacità, i cui effetti sono stati amplificati dal restringimento dello spread dei greggi pesanti rispetto all’indicatore relativo al brent per via della riduzione dell’offerta nell’area mediterranea. L’andamento negativo dello scenario è stato attenuato dalle misure di efficienza e ottimizzazione. I risultati dell’attività di marketing sono stati penalizzati dalla contrazione dei consumi di carburanti e dall’inasprimento della pressione competitiva.

Nel 2013 le lavorazioni di petrolio e semilavorati in conto proprio hanno raggiunto i 27,38 milioni di tonnellate: una diminuzione dell’8,8% rispetto al 2012. In Italia la flessione del 9,4% dei volumi processati riflette principalmente l’effetto della fermata della raffineria di Venezia, programmata in vista della sua riconversione in raffineria “verde”. nonché di quella di tutti gli impianti restanti che, dato l’andamento dei margini di raffinazione, rimoduleranno gli assetti produttivi. All’estero – in particolare nella repubblica Ceca – le lavorazioni in conto proprio sono scese del 5,9%.

Nel 2013 le vendite rete in Italia – 6,64 milioni di tonnellate – sono diminuite del 15,2%, per via del quadro congiunturale recessivo caratterizzato anche da una crescente pressione competitiva. La quota di mercato media del 2013 è del 27,5%: un calo di 3,7 punti percentuali rispetto al 2012, che beneficiava dell’iniziativa “riparti con Eni”.

Le vendite rete nel resto d’Europa sono pari a 3,05 milioni di tonnellate: sostanzialmente in linea rispetto al 2012 (+0,3%), grazie ai maggiori volumi commercializzati in Germania e Austria, quasi completamente compensati dal calo delle vendite in repubblica Ceca e Ungheria.

Gli investimenti tecnici – 619 milioni di euro – hanno riguardato l’attività di raffinazione, fornitura e logistica (444 milioni) per il miglioramento di flessibilità e rese degli impianti, in particolare presso la raffineria di Sannazzaro, nonché il marketing e la ristrutturazione della rete distributiva dei prodotti petroliferi (175 milioni).

Nel 2013 il settore Refining&Marketing ha speso in ricerca e sviluppo circa €33 milioni, al netto dei costi generali e amministrativi. Nel corso dell’anno sono state depositate sei domande di brevetto.

Ristrutturazione e rilancio della Raffineria di Gela

A luglio 2013 Eni ha annunciato il progetto di ristrutturazione e rilancio della raffineria di Gela: un investimento di 700 milioni di euro che renderà più competitivo l’impianto, vista la mutevolezza delle condizioni di mercato, economicamente solido nonché più eco-compatibile e attento al territorio. A regime, a completamento di un assetto industriale e organizzativo già avviato nel 2013, la raffineria di Gela consentirà di generare utili con produzioni più adeguate alle esigenze di mercato – massimizzando la produzione di diesel e interrompendo quella di benzine e polietilene) e recuperando nel contempo affidabilità, flessibilità ed efficienza operativa.

Il punto sui problemi ambientali

Nel 2010 la raffineria ha ottenuto l’autorizzazione integrata ambientale dal Ministero per l’Ambiente (all. 1) e ottenuto lo status di Sin (Sito di Interesse Nazionale ai sensi dell’art. 252 del DLgs. 152/06) di Livorno, riperimetrato a maggio 2014 (all. 2).

Come tale l’area dell’Eni, pari a circa 195 ettari, è stata caratterizzata da una Messa in Sicurezza di Emergenza (d’ora in avanti MiSE) delle falda acquifera contaminata: è stata presentata un’apposita analisi di rischio ed è tuttora in corso di valutazione il progetto preliminare relativo alla Messa in Sicurezza Operativa (MiSO) che consta di una barriera idraulica di emungimento delle acque di falda lungo tutto il perimetro del sito.

Nel sito di bonifica, oltre all’area di stretta pertinenza delle attività produttive, vi sono anche aree di pertinenza esterne, quali i due terminali marittimi (nuova darsena petroli e darsena Ugione) e gli oleodotti che collegano la raffineria alle suddette darsene.

Le attività in corso nel procedimento di bonifica si possono individuare grazie al verbale della Conferenza di Servizi di Istruttoria Ministeriale del 11/04/2014, liberamente e pubblicamente consultabile in http://www.bonifiche.minambiente.it/istruttorie_2014_26.html.

La caratterizzazione del sito, formalmente conclusa nel 2011, validata dall’Arpat e relativa alla conoscenza dello stato dei suoli e delle falde acquifere presenti hanno messo in luce una contaminazione dei suoli e della falda superficiale da idrocarburi, Ipa, mercurio, MtBE e analoghi. evidenziando chiaramente come tra lo stato di contaminazione delle due matrici vi sia una correlazione che la stessa Conferenza ipotizza possa derivare da sorgenti contaminanti ancora attive sull’area in esame: per esempio (come indica l’Arpat) i bacini di contenimento non impermeabilizzati dei serbatoi di stoccaggio.

Al momento sul sito è in opera una MiSE costituita da 23 pozzi di emungimento che attingono alla falda superficiale e, in minor misura, a quella profonda, dove le acque sono miste a prodotto surnatante. Tali sistemi, ubicati lungo il confine dello stabilimento e nelle aree impiantistiche, si aggiungono alla trincea drenante presso l’area Gpl e ai due sistemi in azione presso le due darsene; l’insieme è stato da poco messo a regime con l’aggiunta di altri 13 piezometri attrezzati per l’emunigimento. In merito ai risultati analizzati dal monitoraggio del sistema di messa in sicurezza, la Conferenza richiede di avviare interventi più efficaci sulle acque sottostanti la raffineria, per impedire che la contaminazione si estenda e che i fruitori dell’area corrano rischi sanitari.

Quanto all’analisi di rischio presentata dall’Eni, la Conferenza non la ritiene né esaustiva né accettabile, perciò ne richiede l’implementazione.

Al momento la situazione della bonifica sull’area Eni è particolarmente complessa e di non facile soluzione. I casi sono diversi e molteplici: se l’area rimarrà di proprietà Eni e l’attività produttiva vi continuerà come oggi, l’Eni avrà l’onere di portare la MiSE a MiSO, cioè di far passare la messa in sicurezza da “di Emergenza” a “Operativa”: un intervento di bonifica atto a confinare la contaminazione all’interno del sito e a eliminare ogni rischio per i fruitori dell’area. Se, invece, l’attività produttiva sul sito cesserà, l’Eni dovrà effettuare la bonifica vera e propria, eliminando la contaminazione presente. Se, infine, l’attività produttiva passerà a un altro soggetto e lo stabilimento non chiuderà, la bonifica rimarrà a carico dell’Eni, a meno che tale punto non sia espressamente riportato nel contratto di vendita: in quest’ultimo caso l’onere di bonifica andrà chiaramente trasferito al nuovo soggetto, e i costi relativi andranno considerati nel contratto di compravendita.

Considerazioni sulla riconversione

In Europa e in Italia la raffinazione è in crisi da tempo. Negli ultimi cinque anni sono state chiuse 17 raffinerie in Europa (soprattutto in Francia): in Italia è già toccato a Cremona, Mantova e Roma. Le ragioni sono essenzialmente da ricondurre a sovracapacità (specie nel Mediterraneo: in Italia i consumi di prodotti petroliferi sarebbero calati del 30% rispetto al 2006) e costi troppo alti rispetto ad altre aree del mondo.

Ad oggi l’Eni sta riconsiderando gli stabilimenti di Livorno, Marghera e Gela. A Venezia e Gela prospetta la riconversione in bioraffinerie (molto probabilmente per ragioni più sindacali che industriali), anche se su quest’ultima per ora non si hanno notizie di progetti concreti ma solo dichiarazioni d’intenti, mentre è più chiaro il progetto di Marghera, dove Versalis dovrebbe produrre biodiesel secondo il metodo Ecofin di Eni/Uop (gruppo Honeywell). Si tratta di un metodo, alternativo al biodiesel tradizionale, che estrae per esterificazione degli acidi grassi (come quello di Novaol a Livorno, che peraltro non ha praticamente mai prodotto e ora funziona solo da deposito), chiamato HVO (Hydrotreating of Vegetable Oils). Per quanto sembri un po’ più efficiente di quello tradizionale usa esattamente le stesse materie prime, ossia oli vegetali: tra l’altro ancora non si sa quali (olio di palma e di jatropha, probabilmente importati via mare).

Riconvertire le raffinerie in bioraffinerie non è affatto semplice, per varie ragioni:

  1. non si può pensare di ragionare sui quantitativi enormi trattati da una raffineria tradizionale;

  2. i biocarburanti di seconda generazione (2G: sono allo studio alcune tecniche di produzione di biocarburanti volte ad evitare gli effetti negativi di tale produzione, cioè consumo di suolo, impatto sulla produzione agricola e sui consumi idrici, ecc. I cosiddetti “biocarburanti di seconda generazione” sono infatti ottenuti con altre tecniche, utilizzando materiale lignocellulosico, la coltivazione del miscanto o la coltivazione delle alghe), che potrebbero evitare alcuni effetti negativi della produzione di biocarburanti tradizionali (riduzione della disponibilità di derrate alimentari, bassa resa energetica, coltivazioni a elevato impatto ambientale in particolare per i consumi idrici), presentano comunque problemi connessi all’attivazione di una filiera agricola. Il gruppo Mossi & Ghisolfi, ad esempio, che nell’ottobre 2013 ha inaugurato la bioraffineria di Crescentino (Vc), primo impianto al mondo per la produzione di bioetanolo da biomasse non alimentari (proprietà di Beta Renewables – joint venture tra la Biochemtex, società di ingegneria del gruppo Mossi & Ghisolfi, il fondo americano TPG – Texas Pacific Group e la danese Novozymes, leader mondiale della bio-innovazione) non ha stretto quasi nessun accordo agricolo per il suo impianto, perché il suo vero scopo è vendere la tecnologia nel sud del mondo come ha fatto in Brasile dove, con tutta probabilità, sorgeranno le grandi bioraffinerie mondiali (come del resto in India, Cina o Malesia). I suoi concorrenti (DSM, la spagnola Albengoa, Du Pont) hanno aperto impianti in Iowa o in Nebraska dove c’è grande disponibilità di residui di mais da sfruttare (anche a Cremona i cascami di mais disponibili per uso energetico sono molto abbondanti ma sono utilizzati in impianti agricoli di digestione anaerobica, che producono biogas da cui si ricava energia elettrica e cascame termico, più conveniente per gli agricoltori sia per l’utilizzo diretto che per avere (fino a ieri) gli incentivi di stato;

  3. meglio sarebbe puntare a una vera bioraffineria dimensionata sulla produzione di qualche compound chimico da materie prime locali (magari su terreni abbandonati o inquinati) e fare a cascame energia (e non viceversa). Per questo però ci vogliono imprenditori e idee imprenditoriali concrete. Novamont si sta già impegnando a Porto Torres e Adria: Mossi & Ghisolfi aveva fatto una proposta per la Toscana ma non se n’è fatto nulla. Forse il primo interlocutore con cui parlare sarebbe proprio Versalis, ossia la costola verde di Eni che, non a caso, oggi è corteggiata dalla Sicilia alla Lombardia (dove, a Mantova per la precisione, la Regione sogna di fare il polo chimico verde).

In conclusione occorre pensare non solo a una soluzione come quella di Marghera e/o Gela, ma a un approccio diversificato.

Dal Paes del Comune di Livorno:

TabellaPaes

Elaborazione a cura del Gruppo Green & Social Economy di #BuongiornoLivorno