Razzismo, discriminazione, disuguaglianze


Pubblichiamo l’intervento del nostro capogruppo Andrea Raspanti al consiglio comunale del 20 marzo 2015.

Parlando di razzismo usiamo spesso la parola “discriminazione”. A pensarci bene, però, se c’è una cosa che il razzista non è capace di fare è proprio discriminare, distinguere. Il razzista semplifica la complessità. Il razzista pensa per categorie, fa di tutta l’erba un fascio, non è capace di vedere le differenze tra le persone, di cogliere la loro unicità. Vede gruppi uniformi e coesi. E di solito minacciosi. E questa cecità rispetto alle differenze, questa insensibilità all’unicità porta dritto a disumanizzare dell’altro: non è possibile coglierne l’umanità rifiutando di aprirsi alla sua storia unica e irripetibile. Il razzismo interrompe la comunicazione empatica tra persone, ci rende stupidi davanti al dolore e alla speranza degli altri. Disabilita in noi la capacità di immedesimarsi nell’altro a cui siamo neurobiologicamente vocati. Di fronte a una madre o un padre che sono disposti a imbarcare il proprio figlio di pochi mesi o anni su un gommone stipato di persone per attraversare il mare in tempesta non vediamo più la disperazione, ma la spregiudicatezza. Di fronte a una madre o un padre che piangono sulla bara dei propri figli morti in un rogo in una catapecchia ai margini della nostra città, non vediamo lo strazio, ma la farsa. Non ci mettiamo al loro posto. Semplicemente perché “loro non sono come noi, non vogliono bene ai figli come noi”.

Interrogarsi sul perché questo accada senza darsi risposte facili e auto-assolutorie è dovere di ognuno di noi, perché la storia ci insegna come sia facile cadere preda di una simile forma di istupidimento di fronte all’umanità dell’altro. Perché questo istupidimento, così a portata di mano per ognuno di noi, è alla base dei peggiori crimini di cui l’umanità si è macchiata e dei silenzi che li hanno resi possibili. Tutti noi, ogni giorno, ci accorgiamo quanto è facile perdere di vista le ragioni e i sentimenti degli altri, anche delle persone a cui siamo più legati. Un esempio banale, quotidiano, ci è offerto dalle situazioni in cui parliamo o agiamo in preda alla rabbia. O alla paura: soprattutto alla paura. Quando siamo minacciati siamo più esposti ad aderire a schemi di pensiero e linguaggi di massa, confezionati dai media e pronti all’uso. Quando ci sentiamo minacciati siamo più inclini a tagliare il mondo a fette, a semplificare la realtà: lo facciamo perché la nostra priorità è in quel momento agire, fare qualcosa per metterci al sicuro, scaricare una tensione spiacevole e, allo stesso tempo, allontanare da noi ciò che la produce. L’azione richiede sempre una qualche forma di semplificazione, specie l’azione più impulsiva, quella a cui affidiamo la nostra salvezza quando ci sentiamo messi in un angolo. Sono situazioni in cui non si va tanto per il sottile. Poco importa se da quell’azione non caveremo niente di buono. Non è la soluzione del problema il suo obiettivo principale, quanto dimostrare a noi stessi che non siamo deboli, che non siamo passivi. Reagire: questo conta. Quando abbiamo paura noi agiamo per allontanare da noi la paura, per negarla, per scaricare una sensazione spiacevole. Quando abbiamo paura ci sentiamo liberati da ciò da cui ognuno di noi, segretamente, almeno in parte sogna di essere liberato: la responsabilità degli altri, delle conseguenze delle nostre azioni. La reazione suggerita dalla paura può anche rivelarsi efficace, egoisticamente parlando. Ma è anche giusta? Produce alla lunga un aumento della nostra sicurezza oppure pone la basi della dissoluzione? Dalla paura dovremmo guardarci. E dalla paura della nostra paura, della nostra debolezza. Come cittadini, come genitori, fratelli, sorelle, compagni, figli, educatori dovremmo perseguire l’obiettivo del coraggio di riconoscere la nostra debolezza, la nostra paura. Perché solo così la paura può diventare una buona consigliera: se non è negata, se è riconosciuta e accolta, se è spunto di riflessione e di un’azione che le faccia seguito.

Cosa può fare chi, come noi, rivesta provvisoriamente una carica politica? Rabbia e paura non sono certo eliminabili dalla vita delle persone con un colpo di spugna. Ma che dire della rabbia e della paura fomentate dalla società? Dalla cattiva politica, dagli interessi di parte, dal cattivo funzionamento delle istituzioni? Se oggi assistiamo a un ritorno di fiamma di un razzismo mai estinto è anche in conseguenza della scomparsa di una serie di garanzie fondamentali nella vita di tutti noi, e di uno stile di governo che mette in competizione tra loro le diverse povertà. L’impegno culturale è fondamentale, specie in un contesto dominato da mezzi di comunicazione di massa che tendono a isolarci e omologarci, ma da solo non basta. Un buon contributo alla lotta contro il pregiudizio razzista è la lotta alle disuguaglianze, di tutti e tutte, a prescindere dal colore della pelle, dalla lingua, dalla religione, degli usi e dei costumi. L’impegno per ottenere il rispetto dei diritti fondamentali di ciascuno è un impegno che, dobbiamo essere onesti e ricordarlo, non è a costo zero, ma prevede il coraggio, da parte di chi governa, di destinare all’integrazione soldi e risorse. Prevede la fiducia nella possibilità, da parte delle persone, di comprendere che solo destinando all’integrazione uno sforzo reale e concreto si potranno ottenere quei benefici in termini di sicurezza che molti disonesti imbonitori promettono come alla portata di soluzioni da sceriffo. Se oggi usiamo i cinque minuti che abbiamo a disposizione per celebrare una tradizione antirazzista che certo non esaurisce la complessità dell’atteggiamento dei livornesi e delle livornesi verso gli stranieri facciamo un torto grave a tutte le persone che subiscono le conseguenze del razzismo quotidianamente, li facciamo sentire più soli di fronte ai loro spesso inconsapevoli e spaventati persecutori, a cui offriremo un alibi. Se continuiamo a trattare solo moralisticamente il razzismo finiamo con allontanare le persone e soprattutto i giovani dalla comprensione reale dell’unica cosa che conta: la lotta al razzismo ci riguarda tutti. Come antirazzisti, ma prima ancora come razzisti occasionali o potenziali.

Andrea Raspanti