Da troppo tempo a Livorno assistiamo alla diffusione di attacchi a persone di ogni età originarie di paesi lontani.
Troppo tempo: le erbacce vanno estirpate non appena se ne vede sbucare il germoglio.
Assistiamo: non stiamo ancora agendo con ferma decisione per bonificare il terreno.
Alla diffusione: la contaminazione non è avvenuta (ho sempre detestato il termine “multirazziale”, prima perché ammette che esistano le razze e poi perché si ferma alla quantità, “multi”, senza incidere sulla qualità che è fatta di unione, mescolanza, connessione, interdipendenza e, infine, condivisione) ed è iniziato il contagio. Come un virus, questa cosa che non va chiamata razzismo – che è assolutamente necessario non confondere con il razzismo – ha preso a serpeggiare e infine a scoppiare e dispiegarsi. Ha iniziato a essere accettata come qualcosa di inevitabile e, grazie a un tessuto sociale logorato da mancanza di lavoro e in cui l’istruzione è minata da decreti governativi tesi a smontarla, ha trovato il brodo di coltura perfetto per nutrirsi e crescere.
Di attacchi: come altro chiamare gli episodi (che per ora sono ancora solo tali, che per ora non sono ancora una storia né dovranno farla) di repulsione nei confronti dei più deboli fra i deboli se non attacchi, slanci sferrati contro chi non sa né è messo in grado di offrire resistenza?
A persone: a uomini. A donne. A poco più che bambini. All’altro da noi, come noi persona, come noi umana, come noi terrestre (questo siamo).
Originarie di paesi lontani: e non importa se l’origine è persa nel tempo o se è di pochi giorni fa. Importa solo, a chi non dobbiamo cadere nella tentazione di definire razzista, che vengano “da fuori”. Perché quando non c’è più niente da difendere, quando nessun diritto è più (o mai stato) tale – alla salute, alla sussistenza, al lavoro, al reddito, a un’abitazione, all’istruzione, alla parità di opportunità, alla mobilità e alla socialità di chi non ha occhi o gambe – allora ci si chiude: dentro, fuori. I confini, materiali o simbolici che siano, stabiliscono (rendono cioè stabile, impediscono che si muova) la realtà. E, così facendo, la alterano e la rappresentano per quella che non è. I confini sono peggio che sbagliati, molto peggio che ingiusti: sono falsi e falsano la percezione che abbiamo di noi stessi e dell’altro.
Ma non chiamiamolo razzismo. Non odiano gli arabi: odiano gli arabi poveri. Non i neri: i neri poveri. Non i romeni, non gli albanesi, non i bangladesi ma solo i romeni, gli albanesi, i bangladesi poveri. Se il vicino fosse lo sceicco del Dubai non ci sarebbero proteste. Se fosse Erykah Badu, scordiamoci qualsiasi tensione.
Non è razzismo, è bene saperlo. Questo che detesta i poveri, aborre i ribelli, che mostra i muscoli e i denti per mettere paura, che si fa forte con i deboli e debole e servile con i forti, che dice “noi” e “loro”, dove “noi” è un valore e “loro” un male da eliminare, non è razzismo.
Si chiama fascismo.
E non è mai troppo tardi per mettergli fine.
Fiamma Lolli per #BuongiornoLivorno
Vignetta di Vauro pubblicata su Nigrizia (dicembre 2014)