È necessario un ritorno al territorio e alla coscienza di luogo come condizione imprescindibile per ricostruire “l’ambiente dell’uomo” e il senso di comunità.
La sovradeterminazione dell’economia del sistema finanziario nel processo di globalizzazione ha prodotto uno “sfarinamento” totale del territorio e delle relazioni virtuose e co-evolutive fra insediamento urbano e ambiente. La deterritorializzazione, la decontestualizzazione e il degrado costituiscono una seconda natura artificiale in un territorio posturbano e post fordista, con esiti catastrofici sulla qualità della vita, sulle relazioni sociali, sul progresso sociale. Ecco l’imbarbarimento dei nuovi spazi pubblici “cementificati” e relegati a non-luoghi dominati da centri commerciali e l’abbandono o la desertificazione di luoghi storici come le piazze, i parchi, il centro cittadino. Livorno ne è un esempio: la nostra città soffre scelte sbagliate e l’incapacità di arginare gli effetti della globalizzazione che uniforma spazi e luoghi secondo i parametri del consumismo selvaggio.
La tesi attorno alla quale è elaborato questo documento, basata su una visione complessiva di città, sostiene che il luogo, ogni luogo, a maggior ragione quello che vanta una certa storia e una vita plurisecolare, ha personalità, anima, genius loci. Secondo questa accezione il territorio non esiste in natura; esso è prodotto dall’uomo cui è connaturata l’arte del costruire il proprio ambiente di vita in forme culturali. Il territorio è un soggetto vivente ad alta complessità, esito di processi e di evoluzioni sinergiche fra insediamento umano e ambiente. Il territorio dunque cresce, si ammala, muore quando la relazione si interrompe. Livorno è ammalata e depressa, da molto tempo. Serve ripartire dalla coscienza della città intesa come senso di appartenenza alla società locale, cosa ben diversa dal semplice campanilismo o dalla chiusura autarchica che non avrebbe senso con la realtà.
La coscienza del luogo è la consapevolezza, acquisita attraverso un percorso di trasformazione culturale degli abitanti/produttori, del valore patrimoniale dei beni comuni territoriali (materiali e relazionali), in quanto elementi essenziali per la riproduzione della vita individuale e collettiva, biologica e culturale. La riformulazione degli elementi di comunità in forme aperte, relazionali, solidali e mutuali è l’elemento caratterizzante di un percorso che va dalla sfera individuale a quella collettiva; in questa ottica può avvenire un riavvicinamento fra mezzi e fini della produzione, favorito da una visione unitaria e condivisa, finalizzata alla ricostruzione del benessere sociale. In un sistema territoriale locale così integrato, possono svilupparsi settori di attività che aprano la strada alla cura, alla manutenzione e all’accrescimento del patrimonio territoriale e ambientale sentito come proprio per un nuovo senso di appartenenza. Si creano così nuove socialità, nuova democrazia, nuovo municipalismo, attraverso le pratiche quotidiane e la produzione di valori territoriali condivisi. Intervenendo sul che cosa, sul dove, sul quanto e sul come produrre, per la trasformazione del patrimonio territoriale in forme durevoli secondo metodi e prospettive già delineate dalla conversione ecologica dei sistemi produttivi.

Si tratta di dare respiro e sostanza alle numerose componenti sociali, politiche ed economiche fra loro molto differenti ma con numerosi tratti in comune, a partire dalla critica, dal rifiuto e dal conflitto verso gli interessi costituiti e il modello di società dominante, dai tentativi di riappropriazione diretta di saperi produttivi verso la costruzione di nuovi simboli e immaginari, pratiche di vita e di consumo alternative, muovendosi, quindi, dalla ri-territorializzazione e dall’auto-riconoscimento. Fondamentali le pratiche e le forme di democrazia partecipativa e i suoi istituti di co-decisione inclusiva: in un territorio abitato da molte culture, da cittadinanze plurali, l’auto-riconoscimento dei soggetti che si relazionano e si associano per la cura dei luoghi è l’atto costituente di elementi di comunità. La comunità è una possibilità, non un dato storico riservato agli autoctoni o ai portatori di grandi interessi tradizionali, ma un progetto delle genti vive, degli abitanti di un luogo, che deriva dalle interazioni solidali fra attori diversi in una società complessa, in grado di reinterpretare l’anima del luogo per attivare nuove forme di produzione e consumo fondate sulla convivialità, la solidarietà e l’autosostenibilità.
La coscienza del luogo passa necessariamente dalle vertenze territoriali e dalle mobilitazioni specifiche su singoli problemi che favoriscano e accompagnino cambiamenti culturali profondi da cui rinascono solidarietà comunitaria, senso di appartenenza ai luoghi di vita e reinterpretazioni dei loro potenziali valori da difendere e da curare attraverso la crescita di cittadinanza attiva. Non si tratta di una semplice difesa di luoghi storici, di identità passate, ma di costruzione di comunità che crescono anche attraverso l’esercizio del conflitto e si ritrovano a costruire un “patto territoriale” di cura, sviluppando le proprie identità e i propri saperi nel progetto comune, in forme dinamiche, aperte e solidali: esempio degli orti urbani, Terme del Corallo, lotte contro il rigassificatore, contro l’ospedale nuovo, progetto Parterre, riqualificazione del Mercato Centrale e dei fossi etc.
La cura e la ricostruzione dei luoghi per la messa in valore dei beni patrimoniali in forme durevoli e sostenibili richiedono dunque cittadinanza attiva, consapevole, in grado di saper coniugare saperi contestuali con saperi esperti attraverso le pratiche quotidiane, contaminazioni e forme di democrazia partecipativa. In questa visione la coscienza di luogo può divenire operante solo se cambiano le condizioni di decisione (riforma dello Statuto Comunale e nuovi istituti e processi partecipativi, decentramento etc). Una democrazia partecipativa come pratica ordinaria di governo in tutti i settori e a tutti i livelli dell’amministrazione locale vista non solo come strumento per la rivitalizzazione della vita democratica a fronte della crisi della democrazia rappresentativa ma anche come strumento di “liberazione” della vita quotidiana individuale e collettiva dalle sovradeterminazioni e coazioni del mercato, verso l’autodeterminazione degli stili di produzione, di scambio, di consumo. La posta in gioco della partecipazione è quella di rimettere il benessere e la felicità pubblica al centro delle politiche istituzionali locali.
È necessario sovvertire l’infelicità. Una delle strade possibili si concretizza nell’arginare la spirale di depressione e di impotenza che caratterizza il declino livornese (inserito certo nello “spirito del tempo” della globalizzazione dominata dalle transnazionali e dalla finanza) mettendo in atto e sviluppando progetti e soluzioni in grado di connettere la crescita di coscienza di luogo con le condizioni di felicità umana, individuale e collettiva. La nostra felicità dipende sì dalle merci che possiamo acquistare col reddito, ma anche e sempre più dai nostri rapporti con le persone che ci circondano, dalle nostre possibilità di svolgere il nostro “genio”, dall’ambiente sociale quindi.
Serve organizzare gli spazi di relazione e di prossimità (piazze, strade, parchi etc), realizzare l’urbanistica dell’organizzazione territoriale che massimizzi i diritti alla qualità urbana e ambientale, alle relazioni sociali, allo spazio pubblico. Ecco il concetto di progresso sociale calibrato per la nostra città: equità spaziale, accessibilità ai servizi, relazioni di prossimità, inclusione sociale, gestione collettiva dei beni comuni territoriali – amministrazione condivisa.

Sviluppare e promuovere i luoghi come dimensioni della vita umana: ecco il senso e le finalità dei nuovi distretti economici territoriali che, superando la logica dei vecchi distretti industriali (Livorno e la sua presunta vocazione industriale?) punti sul recupero dei saperi artigiani, comunicativi, artistici e culturali. Un insieme di progetti di sviluppo locale – basati su relazioni di sussidiarietà e di scambio solidale – legati da un brand livornese e sulla capacità di una sorta di contropotere finanziario territoriale e dal basso (vedi tesi dell’economista Andrea Fumagalli). Una crescita della società locale e delle sua capacità di autogoverno in grado di produrre benessere individuale e collettivo. Un “succo dei luoghi” come insieme di beni patrimoniali che, se messi in valore in forme sostenibili, può produrre nuove forme di ricchezza durevole. Ammesso che questi beni passino attraverso meccanismi autoregolativi: riconoscimenti comuni degli abitanti-produttori e costruzione di patti costituzionali locali (statuti) entro i quali ogni attore (economico, culturale etc.) dovrebbe autoregolare le proprie azioni in modo da non danneggiare o distruggere i beni da cui egli stesso trae ricchezza. Una crescita di imprese, meglio se cooperative di produzioni, a valenza etica su base locale (all’interno di una prospettiva sovralocale di una rete di municipi dentro un federalismo municipale solidale) in grado di sostenere e di praticare un radicale cambiamento dei rapporti sociali di produzione. Un autogoverno locale dei beni comuni, superando in parte la dicotomia fra uso pubblico e uso privato del territorio e del governo dei suoi beni patrimoniali, reintroducendo il concetto “terzo” di uso comune di molti di questi beni (acqua, energia, salute, informazione, alimentazione, costa marina, colline e paesaggi, spazi pubblici urbani etc.). I municipi sono i primi spazi dove restituire il valore statutario di bene comune, dotato di autonomia rispetto ai beni privati e pubblici, dove praticare e coltivare forme di gestione collettiva e comunitaria che consentano di riprendere il significato e i principi degli usi civici.
Ecco il percorso del distretto economico territoriale che deve caratterizzarsi per il progressivo processo di specializzazione di una comunità che gradualmente si focalizza su certe attività produttive tipiche, concentrate nel proprio territorio. Il valore aggiunto che può rappresentare un distretto economico deriva dalla formazione di un “ambiente produttivo speciale” che affonda le proprie radici nella comunità produttiva locale nel suo complesso e, interagendo con gli ambienti produttivi interni delle singole imprese produce l’effetto distretto. Ogni luogo, per come è stato foggiato da madre natura e dalle vicende storiche, ha, in ogni dato momento, un suo grado di “coralità produttiva” basata sia sulla vicinanza tecnica, spaziale e culturale delle imprese sia sulla “omogeneità e congruenza culturale” delle famiglie e degli abitanti. Un grande economista, Alberto Bertolino (maestro, fra gli altri, anche di Giacomo Becattini) era convinto che ogni nucleo di popolazione insediata abbia in sé semi di sviluppo, anche economico – o viceversa blocchi culturali allo sviluppo -, molti dei quali non riescono a germogliare. Secondo questo approccio ogni popolazione esprime qualche potenzialità di sviluppo che però può restare bloccata, o interrompersi, per qualche complesso di condizioni, esterne o interne, contribuendo a renderle “aree depresse”.
Si dovrebbe partire da una ricerca da far svolgere a una vicina Università degli Studi, chiamando a raccolta gli esperti delle scienze sociali, storici, economisti, sociologi, urbanisti e architetti etc. Un progetto di esplorazione in profondità del sistema produttivo locale. Ne verrebbe fuori un rapporto di ricerca (sulle orme delle Relazioni sul governo della Toscana di Pietro Leopoldo nel 1790) che offre il massimo di informazione documentata sulla conformazione socio-economica e sulle potenzialità di sviluppo del sistema locale e in quale direzione merceologica proiettare le nostre nicchie di mercato. L’attività di pianificazione territoriale si fonderebbe quindi sulla individuazione e messa a fuoco della composizione media dei caratteri della popolazione e sull’analisi dello stato del territorio nelle sua infrastrutture naturali e storiche. Si tratta insomma di calibrare le scelte e gli indirizzi politici – economici anche sul “carattere individuale statisticamente rappresentativo” del territorio.
Il futuro di Livorno passa da queste sfide e dalla capacità di una classe politica in grado di sovvertire depressione e infelicità osando ripartire dalla coscienza di comunità.
Stefano Romboli (Direttivo #BuongiornoLivorno)
Fonti bibliografiche essenziali:
- La coscienza dei luoghi, Giacomo Becattini, 2016, Donzelli Editore
- Riconversione: un’utopia concreta, autori vari, 2015, Ediesse
- La sovversione dell’infelicità: analisi, prospettive, possibilità – di Cristina Morini e Andrea Fumagalli http://effimera.org
- La conversione ecologica, Guido Viale, 2011, Nda