Ulrich Beck, grande sociologo e scrittore tedesco scomparso il 1° gennaio 2015, uno dei primi a parlare di lavoro precario in quella che ha definito “epoca della fine del lavoro” e di reddito di cittadinanza, scriveva già alla fine degli anni novanta: “Adesso inizia un tempo in cui cambieremo le forme di vita, non per tutti, ma per un numero crescente di persone. Queste forme di vita assomiglieranno più a quelle diffuse fra le donne nel corso degli ultimi decenni, che non a quelle degli uomini. Non si tratterà cioè di carriere, quanto piuttosto di combinazioni di part-time, di rapporto di lavoro saltuari, di lavoro non retribuito e attività volontarie a beneficio della collettività. Il fatto decisivo è che questa radicale trasformazione dovrebbe essere agevolata e non ostacolata dalla politica. Qui sta il fallimento dei politici. I loro discorsi continuano a muoversi entro binari totalmente antiquati, mentre nella realtà gli uomini già da tempo si trovano ormai a percorrere altre vie” (Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro, 2000). E ancora: “la disoccupazione di massa diventa una catastrofe solo se si tiene legata la società della non più piena occupazione al modello della piena occupazione e le persone, per le quali il lavoro retribuito è diventato una seconda natura, non conoscono altra alternativa per garantirsi l’esistenza e crearsi un’identità sociale” (Conditio Humana: il rischio nell’età globale, 2008).
Al di là di tutto quello che ci sarebbe da dire sulla fine della società del lavoro e sui moniti che ci arrivano da tempo da molte fonti (comprese statistiche “ufficiali”) e da molti autori (compresi economisti) che ci dicono che di lavoro ce ne sarà sempre meno bisogno e soprattutto che il reddito da lavoro non sarà più sufficiente (si pensi al fenomeno dilagante del “working poor class”, ai voucheristi e ai lavoratori poveri su base familiare cioè le famiglie monoreddito ecc.), è davvero incredibile come il Presidente del Consiglio Matteo Renzi continui a vedere esclusivamente nella centralità del lavoro lo sviluppo e il progresso sociale del paese, escludendo dal dibattito e dall’orizzonte politico una forma di reddito minimo garantito o reddito di cittadinanza. E assieme a questo trascurando politiche sociali degne di tale nome.
Bassi salari e precarietà del lavoro, scarsa intensità occupazionale a livello familiare e polarizzazione fra famiglie ricche e povere di lavoro, riduzione della domanda di lavoro nei settori tradizionali a favore di quelli tecnologicamente più avanzati, incapacità del sistema scolastico di compensare le disuguaglianze di partenza: tutti fattori che caratterizzano lo scenario italiano e che rischiano di lasciare fuori molti individui e famiglie anche da una futura auspicabile ripresa. Accanto a politiche del lavoro integrate da trasferimenti e servizi per chi è occupato, o per facilitarne l’occupabilità, servirebbero anche forme di integrazione economica per chi ha un reddito insufficiente: un reddito minimo di inserimento o sostegno di inclusione attiva. Le politiche di sostegno al reddito in un periodo di povertà in aumento sono state, invece, quasi del tutto assenti, nel migliore dei casi marginali e occasionali nell’agenda politica, spesso fuori bersaglio. Inoltre dall’ultimo governo Berlusconi in poi è stato progressivamente ridotto, fin quasi a azzerarlo, il fondo per le politiche sociali destinato agli enti locali, che si sono trovati così ad avere meno risorse per offrire assistenza e servizi proprio mentre gli individui e le famiglie diventavano più vulnerabili.
Malgrado qualche tentativo ministeriale (Giovannini nel 2013 per il governo Letta), nonostante i richiami della Commissione Europea (siamo ancora l’unico paese assieme alla Grecia in Europa a non avere una forma di reddito minimo garantito) e numerose proposte anche depositate in Parlamento, l’assenza di una forma strutturata di sostegno al reddito non produce mobilitazione né indignazione. Dei principali sindacati solo la Fiom di Landini l’anno scorso l’ha inserita fra le proprie priorità. Mentre poche settimane fa la stessa Camusso, leader CGIL, all’ipotesi del reddito di cittadinanza ha replicato chiedendo “la piena occupazione”.
Il governo Renzi non ha certo invertito la rotta: l’orientamento unicamente “lavoristico” è confermato anche dal modo in cui è stato definito il target dello “sconto fiscale” di ottanta euro mensili: i lavoratori dipendenti a salario (abbastanza) modesto. Ha di fatto così escluso tutti i lavoratori autonomi, a parità di reddito, ma anche, in quanto incapienti, quasi tutti i lavoratori dipendenti a basso salario. Infine, trattandosi di misura fiscale, è stato considerato il reddito da lavoro individuale e non il reddito disponibile su base familiare. Sempre di impronta fortemente lavoristica è, nel decreto sulla riforma degli ammortizzatori sociali, l’introduzione sperimentale di una indennità di disoccupazione assistenziale (Asdi) destinata a chi perda il diritto all’indennità di disoccupazione senza aver trovato un altro lavoro e sia povero. Come nella nuova social card sperimentale, non basta essere povero per ricevere assistenza.
Insomma, in attesa che le politiche del lavoro diano i propri frutti — cosa che non sembra essere dietro l’angolo, ammesso sia ancora possibile raggiungere certi risultati del passato — un paese civile e minimamente lungimirante dovrebbe affrontare la questione del diritto alla sussistenza dei suoi cittadini e di tutti coloro che vi risiedono legalmente.
Ma per Renzi (e non solo) l’importante è pensare al (proprio) presente e recitare copioni imparati a memoria.
Stefano Romboli, direttivo Buongiorno Livorno