Democrazia del web contro capitale della rete


La lunga lista dei beni comuni – in Italia già oggetto del percorso e della definizione giuridica della Commissione Rodotà (2007) – comprende l’acqua (fiumi, torrenti, sorgenti, laghi ecc.), l’aria, i parchi, le foreste e le zone boschive, le zone montane di alta quota, i lidi e i tratti di costa dichiarati riserva ambientale, la fauna selvatica e la flora tutelata, i beni archeologici, culturali, ambientali ecc.
Sono classificati “come le utilità essenziali che soddisfano i bisogni collettivi corrispettivi all’esercizio di diritti fondamentali e al libero sviluppo della persona che devono essere tutelati e salvaguardati dall’ordinamento giuridico, anche a beneficio delle generazioni future. Titolari di beni comuni possono essere figure giuridiche pubbliche o private. In ogni caso deve essere garantita la loro fruizione collettiva”.
Il nesso fra beni comuni, diritti fondamentali, sussistenza e libero sviluppo della persona può includere attività come l’energia elettrica, la mobilità, la sanità, lo spazio urbano, il lavoro, la scuola e l’università, la conoscenza e l’informazione.
Sconcerta, pensando a queste ultime e al fatto che in generale ai beni comuni si associ un insieme di relazioni che non può essere affidato a logiche mercantili e proprietarie, quanto sta accadendo in USA dove la potentissima e trumpiana Federal Communications Commission (FCC) ha deciso di eliminare il vincolo della Net Neutrality, stabilita da Obama nel 2015 che garantiva – almeno sulla carta – il principio giuridico di non determinare restrizioni all’accesso e alle connessioni alle reti.
Di fatto si favorisce, ancora una volta, la divisione di censo. Senza l’obbligo di neutralità i servizi si suddividono in pacchetti offerti sulla base delle possibilità economiche dei navigatori e la ricchezza diventa sempre più metro di misura del diritto all’informazione.
Fra le conseguenze della decisione il rischio di pagare di più per accedere a Internet (sia su fisso che mobile) con velocità accettabili, di pagare di più vedendo rallentati i contenuti che ci piacciono se le compagnie telefoniche non apprezzano quei contenuti e di pagare per gli applicativi fatti per internet danneggiando sia l’educazione che le start-up giovani e l’intero mondo del gratuito.
Uno spartiacque importante: rispetto alle opportunità straordinarie dell’evoluzione teconologica rischia di prevalere il “terribile diritto alla proprietà” (come lo definiva Stefano Rodotà). Nell’era del cyber capitalismo e del capitalismo cognitivo la neutralità della rete va difesa e consolidata soprattutto per tutelare la cittadinanza digitale. Internet e la rete sono un bene comune, per tutti. E oggi attengono alla sfera pubblica come la scuola e la sanità, e toccano i diritti fondamentali.

Ecco perchè non ci troviamo davanti solo all’ennesimo capriccio di Trump, ma a qualcosa di più grande e che ha a che fare con la lotta di classe che oggi avviene anche attraverso le piattaforme digitali dalle quali sempre più passa la ricchezza (basti pensare ai guadagni di Apple, Google, Amazon, Twitter, Facebook e Ebay a fronte di un bassissimo costo in termini di personale e di tasse pagate)
“Il valore di rete è esito di un processo di sfruttamento, di estrazione e di imprinting alimentato dalla partecipazione individuale e apparentemente autonoma, ovvero una complicità soggettiva, cosciente o incosciente. E ovunque c’è un app, c’è valore di rete, cioè valore biopolitico” – come scrive l’economista Andrea Fumagalli. Il valore d’uso della forza lavoro su internet viene acquisito gratuitamente: anzi, paghiamo pure la connessione (oltre all’hardware, all’elettricità ecc) e si lavora appunto gratis implementando i big data. Ma in rete si palesa l’obbligatorietà della prestazione lavorativa: un cittadino medio con una vita “standard e integrata” oggi è in pratica obbligato a essere connesso a meno che non decida di fare una scelta radicale che pochi possono permettersi. Oggi senza connessione non si riceve la busta paga, non si pagano le bollette, non si ha una vita sociale e affettiva “normale”, non si accede all’informazione. Figuriamoci poi per i milioni di lavoratori cognitivi che lavorano nella sharing economy, nella gig economy e nella cosiddetta “uberizzazione” dei servizi: senza connessione si è tagliati fuori.
Una rivoluzione antropologica e economica che già ha cambiato le nostre vite e i nostri rapporti. Non a caso attorno a questi cambiamenti e a queste nuove ricchezze che hanno già modificato anche il mondo del lavoro salariato, mettendolo sempre più ai margini e in buona parte potendo farne a meno, non sono pochi- anche fra gli economisti- a rivendicare una redistribuzione attraverso un reddito di base a garantire condizioni di vita sufficienti a tutti, in particolare ai tanti sempre più in povertà o a rischio di povertà. Una redistruzione di una ricchezza prodotta collettivamente, come scritto sopra, e quindi una misura sia di compensazione degli effetti della globalizzazione e dell’innovazione tecnologica che di riconoscimento per il contributo diretto: anche per questo si parla di dividendo sociale, un reddito universale di esistenza nell’era digitale che riconosca un “diritto alla ricchezza prodotta e sviluppata dalla cooperazione sociale in rete”. Non basta una web tax, serve molto altro, a cominciare dal cambiamento di regime politico e di paradigma economico. Si tratta di riaggiornare le categorie del buon vecchio Marx ma che sono sempre attualissime.

Per tutto questo merita grande attenzione la sfida lanciata in USA: c’è molto di più che la semplice neutralità della rete. C’è in ballo, ancora una volta, un colpo sparato dai più ricchi e potenti all’interno della plurisecolare lotta di classe che negli ultimi decenni ha provocato macerie e distruzioni alla maggior parte delle popolazioni.

Stefano Romboli – Direttivo Buongiorno Livorno