Sottovento


Fa un caldo che sudi da ferma, all’ombra, dentro casa, nel punto di maggior flusso d’aria ottenuto spalancando tutto, le finestre di fronte e quelle alle tue spalle. Ma aria non ce n’è, nemmeno una bavetta di vento; anche in questo spazio ormai quasi del tutto aperto non respiri, e il sudore cola sui tasti. Fa troppo caldo perfino per stare seduta a scrivere.

Decidi per una doccia, l’ennesima, poi – con i capelli bagnati fradici – ti infili le infradito e un vestitino da niente, zero maniche e più corto che si può, e torni alla scrivania a lavorare. Arriva un po’ d’aria, è aria calda ma è aria che si muove, è già qualcosa, e più cresce più da fuori con quella sembrano entrare nella stanza vampate, una più forte della precedente. Sei già quasi del tutto asciutta quando ti arrivano voci. Gridano. Non sono parole ma grumi di consonanti liquide, non capisci, vai per affacciarti al balcone ma ancora prima di uscire comprendi che cosa stanno gridando – “Il Gpl, il Gpl!” – e il calore rovente scompare, nascosto e sostituito da un freddo improvviso e totale.

Ti precipiti per le scale e poi fuori, sono tutti lì coi secchi e i tubi, apri la pompa del tuo pozzo e ti unisci al disperato tentativo di spegnere gli olivi, spegnere le viti, i peschi, la quercia, i due mandorli, spegnere la distesa di girasoli che ora, come il resto, è un solo campo di fiamme scricchiolanti costellato di scintille e percorso da strisce di fuoco che serpeggiando a un passo dalle case sembrano correre a precipizio fino alla radura oltre i pioppi dove, non ancora raggiunta dall’incendio, la piattaforma di cemento protegge il serbatoio di gas propano liquido che alimenta le case della frazione. Sotto lo zoccolo armato, la fitta rete di metallo e la terra il tank è al sicuro, te lo ripeti mentre non senti le stoppie che ti bucano i piedi – sei scalza, anzi no, una ciabattina ti è rimasta – né rifletti che forse infilarti in un tunnel di fuoco (ché quello sono diventati i filari delle vigne, altrettanti tunnel di fuoco) non è la cosa più prudente da fare. E invece sì, è prudentissima, perché dove finiscono i filari e i pioppi c’è il serbatoio che non sia mai esploda, non sia mai succeda, non sia mai. Avanzi col tubo avanti a te e a ogni getto d’acqua che raggiunge i tronchi in fiamme si solleva una nube di fumo lattiginoso che ti nasconde agli occhi, gonfi e zeppi di lacrime, tutto quel rosso e quel blu.

Blu?

Blu.

Sono due autopompe dei vigili del fuoco, una è già in posizione, l’altra si sta fermando all’orlo dell’ultima casa.

Scendono di volata, danno ordini che eseguiamo subito tutti, senza discutere, fanno agganciare l’aratro al più piccolo dei trattori e lo guidano ai piedi dei pioppi, avanti e indietro, nella concitazione passando si schiantano i salici da vimine ai piedi dei filari, non importa, figuriamoci se importa a qualcuno, cosa vuoi che ci sia più da legare dopo la vendemmia, ma quale vendemmia quest’anno, quale salice, quale pioppo, presto i solchi si riempiono di una schiuma densa e intanto noi spostiamo e spingiamo avanti la terra con le pale, avanti tutti, le vanghe, le zappe perfino, con qualsiasi cosa serva a far barriera, e mentre continuiamo nella folle avanzata la pompa spara un getto d’acqua fortissimo che dove passa tutto schizza via, e finalmente il fumo è ovunque e il fuoco in pochi punti, circoscritti, circondati, accerchiati. Spenti. È finita.

Lo zoccolo sopra il tank è nero ma intatto, alcune finestre hanno le persiane affumicate ma sono intatte, noi ci contiamo rapidamente e sì, siamo intatti anche noi, tutti e ventisette – più due squadre di uomini, in tutto poco meno di quaranta persone. Ci guardiamo: braccia e gambe sono coperte di graffi, sulle mani abbiamo qualche vescica da niente che presto sarà una cicatrice e poi sparirà, gli occhi rossi ci spuntano sulle facce ingrigite dalla cenere che vola (ora sì che c’è vento, dannazione) e impastate di pianto e moccio ma ci siamo, ci siamo tutti, siamo tutti in salvo.

Ci siamo riusciti.

Tra viti, olivi, girasoli, piante da frutto, querce e salici mezzo ettaro è andato. Che grande fortuna, solo mezzo ettaro.

Moltiplicatelo per mille e duecento volte, metteteci in mezzo case e paesi e centinaia di persone e avrete i seicento ettari – ottocento e passa campi da calcio regolamentari, per capirci, o quasi tre volte l’intera isola della Gorgona – che da ieri stanno bruciando sul Monte Serra. E anche così non capirete, né capiremo come si possa causare tutto questo per volontà – per dolo. Come si possa non amare un territorio al punto di non custodirlo, anzi di volerlo distruggere, anzi di darlo alle fiamme. E tutto perché a qualcuno conviene: a chi ora potrà costruirvi o a chi invece lo rimboschirà o a chi potrà lucrare sui soccorsi e gli aiuti, magari, chissà, ridendone, come già è avvenuto per il terremoto dell’Aquila o l’alluvione di Livorno. Contemporaneamente quasi mille pini saranno abbattuti per fare spazio all’ennesima servitù militare. Servitù, davvero non basta questo termine a far scattare un moto di intollerabilità? Nemmeno se a poco più di venti chilometri il fuoco sta distruggendo un’innumerevole quantità di alberi?

Tutto ciò non è più, se mai lo è stato, tollerabile. Non è tollerabile che prima si annuncino fondi per i danni dell’alluvione, danni causati da una gestione del territorio e delle sue vie d’acqua come minimo miope (ma di una miopia generata dalle logiche dello sfruttamento) e poi se ne riduca lo stanziamento effettivo a meno della metà; non è tollerabile che, nella conferenza stampa tenutasi a Calci (PI), il governatore della Toscana dichiari: “Le origini sono sempre un po’ dolose» e poi firmi lo stato d’emergenza – o, forse, di un po’ d’emergenza.

Da questa intollerabilità, ed è necessario esserne ben coscienti, non usciremo né in un batter d’occhio né facilmente né senza sforzo. Amiamo il nostro territorio, però, e abbiamo tutte le intenzioni e molti strumenti – competenze, nozioni, capacità e tenacia – per ribaltare la situazione e mettere al primo posto delle nostre agende lo spazio in cui viviamo. Tocca solo farlo. Prendere le pale e le vanghe e far barriera, finché – con qualche segno in più, forse, qualche ferita che presto sarà cicatrice e poi sparirà – saremo in salvo.

Ci possiamo riuscire.

Fiamma Lolli