Chi va a cena col PD?


La recente e non irresistibile psicostoria sull’opportunità o meno di riunire a cena esponenti del Pd, vicenda nata e morta su twitter e sui giornali, impone qualche riflessione. Proprio sul futuro del partito democratico. Anche in vista delle prossime scadenze politiche che, mettendo tra parentesi le elezioni, si annunciano molto serie per questo paese e i suoi territori. Certo, ci sono anche scadenze che sarebbero serie per l’Europa ma, senza aver piantato bene i piedi per terra, oggi è difficile guardare in cielo.

Il PD nasce su una ipotesi generalista e politicista assieme. Raccogliere quante più energie della società italiana, prima di tutto. Senza darsi grossi criteri di selezione nell’attrazione di queste energie, tanto che il simbolo, un tricolore composto dalla scritta PD, evita di marcare il confine, che oggi si chiama ideologico, rappresentato dai simboli dei partiti tradizionali e chiama a raccolta, potenzialmente, tutti. La seconda è quella del tentativo di risoluzione dell’allora già serio problema del caos interno al sistema politico. Un Pd forte, con allora il satellite dell’Idv di Di Pietro, si vedeva competitor, in un sistema politico visto come tendenzialmente bipolare, con l’altro schieramento, composto da un Pdl egemone e il satellite leghista. Questo lo schema delle elezioni del 2008, con il PD che, perdendo, prese un lusinghiero 33 per cento alla camera e al senato con qualche decimale di differenza tra i due rami del parlamento.

Oggi questo scenario, considerando che i principali attori di allora (Pd e Pdl) erano oltre il 70 per cento complessivo, si è dissolto praticamente per sempre. Una mutazione così radicale e impressionante, per quanto più veloce, era avvenuta solo alla fine della prima repubblica, quella dei partiti tradizionali. L’unico tratto di continuità con il 2008, ed è un problema serio, è che oggi come allora la sinistra detta radicale non entra in parlamento. Allora perché schiacciata dal sistema bipolare. Oggi perché ancora incapace di coniugare assieme innovazione, radicalità, credibilità e consenso nella crisi. E il problema della perdita a sinistra della rappresentanza delle classi subalterne rimane immutato oggi come dieci anni fa. Allora il primo partito operaio, anche se era un operaio molto diverso rispetto al fordismo, era Forza Italia. Oggi la contesa del voto operaio è tra Lega e Movimento 5 stelle. Il resto abbaia alla luna.
Nello stesso periodo che passa tra nascita del Pd e la prima grande prova elettorale (2007-2008) emerge la grande crisi finanziaria che, giova ricordarlo, ancora lascia tracce e macerie evidenti nella società italiana. Basti ricordare che, da allora, il nostro paese non ha ancora recuperato il Pil prodotto e che gli investimenti sono ancora ridotti di un terzo da quel biennio. Un paese spaccato in due con maggiore radicalità rispetto al passato, tra zone di eccellenza e zone di declino (tra cui Livorno), tra il Nord, che il Pil 2008 lo ha recuperato, e il Sud che, da anni, ha un livello di contrazione del Pil, statistiche alla mano, simile a quello della Grecia. Un paese che, per mantenersi in salute e non rimanere economicamente indietro, dovrebbe produrre innovazione tecnologica. Eppure l’Italia ha programmato di investire nell’intelligenza artificiale almeno dieci volte meno della Francia, nei prossimi anni.

La stessa contrazione delle economie locali, a discapito di quelle di scala, è decennale e visibile sui nostri territori. Il taglio e la centralizzazione della spesa pubblica, tendenza accentuatasi da Monti in poi, ha tolto oltre quaranta miliardi agli enti locali (su diretta indicazione Ue, basta leggere i documenti ufficiali). Per Livorno il colpo è stato forte. Per cui ogni taglio, come la vicenda del bando periferie, si sente più che in altri periodi. Ogni piano faraonico sulla carta ma minimale negli effetti economici, come l’accordo sull’area di crisi complessa, è più duro da digerire. E ogni vicenda che rimane sulla carta, come oggi la Darsena Europa, getta maggiore ombra sul futuro della città.
Di fatto il centrosinistra italiano, che il Pd è nato per cementare, dall’inizio degli anni ’90 persegue la stessa politica arrivata fino a noi: avanzo primario di bilancio (il cittadino riceve molto meno in termini di servizi e investimenti di quanto versa allo stato), sterilizzazione del reddito (con il Jobs Act come atto finale di una lunga trama in materia), centralizzazione e contrazione reale della spesa pubblica a danno delle economie locali. Il potere di investimento e di governo delle economie resta così tutto dei soggetti finanziari. I vari Ciampi e Prodi di turno esistevano per questo. Anche la flessibilità di bilancio renziana (fare deficit col permesso della Ue), quella che viene oggi rimproverata ai 5 stelle, non ha mai intaccato questo schema. Che è uno schema di declino economico, tecnologico, culturale e anche demografico. L’ondata di privatizzazioni avviata da Prodi con la metà degli anni ’90 e la dismissione dell’industria e della finanza pubbliche non hanno mai portato, come invece sostenuto dal centrosinistra, alcun beneficio pubblico in materia.
Infatti oggi il Pd paga, in termini di consenso (nei sondaggi ha il 16 contro il 60 per cento dell’alleanza gialloverde) tutti gli effetti collaterali di queste politiche di lungo periodo, emerse prima della sua stessa nascita. E l’orizzonte europeo, che a lungo è stato rappresentato come la contropartita dei sacrifici degli italiani, ha fatto presto a rivelarsi per come è. Non un progetto di unione politica e sociale ma, al netto della retorica, uno spazio di competizione esasperata tra sistemi economici, imprese e cittadini. Anche i soldi immessi da Draghi nel sistema finanziario e bancario italiano si pagheranno cari, è sempre accaduto così. Del resto l’Europa, al netto della retorica, è quello che doveva essere dagli anni ’60: un’area valutaria ottimale, con una moneta forte, dove i paesi come il nostro spendono notevoli risorse per pagare le quote del club. Quella che oggi si chiama “Europa” era questo sin dalle origini: partiti, sindacati, “sinistra”, un po’ non l’hanno capito un po’ hanno fatto finta di non capirlo. Non si vede nel partito democratico un’idea di società, di cambiamento economico radicale, di inversione di quella rotta che ha portato alla diseguaglianze di oggi. E neanche se ne vede una di Europa, tra l’altro. Addirittura circolano studi che vogliono dimostrare che la polpa della società italiana –a partire dai lavoratori cognitivi ad alta specializzazione- abbia abbandonato il centrosinistra. Tutto ciò grazie a un elettorato prossimo alla marginalità sociale ma soprattutto incapace di esprimersi, e muoversi, nel merito dei cambiamenti che abbiamo di fronte.

Il PD non riesce ad elaborare una politica e una visione differente rispetto a quelle del centrosinistra dell’ultimo quarto di secolo. Si guardi la finanziaria alternativa proposta dal Pd. Se l’alleanza gialloverde crollasse domattina, per assurdo, non avremo politiche tanto differenti dai governi Renzi-Gentiloni. Abbastanza per preparare, nonostante il marketing, il tracollo elettorale successivo e via all’infinito. Ma quello che il PD percepisce poco è l’effetto che fa all’elettorato e anche agli altri partiti. Basta vedere le reazioni che suscita Maria Elena Boschi in tv quando attacca il movimento 5 stelle. Si sondi l’elettorato, si faccia qualche focus group e si capirà che gente come la Boschi, per non parlare di Renzi, legittima, di fronte all’elettorato, la presenza di questo governo. Quando chi  non è più proponibile continua a proporsi, il danno è doppio.
Il problema più serio non è tanto, come paventato da qualcuno, il rischio “pd orbita 5 stelle”,  ma quello che il PD finisca per somigliare sempre di più ai 5 stelle, nell’ottica di raccattare qualche voto, come con l’ultima deriva renziana. Oggi il PD, quando non è preso nella conta interna infinita, è un partito che è un po’ per l’accoglienza e un po’ per Minniti (persona che, in materia di rispetto dei diritti umani dei profughi, a seguito degli accordi con le bande libiche a nostro avviso è da consegnare al tribunale dell’Aja). Industrialista e anche ecologista, lavorista ma per per il reddito di inserimento, europeo e tricolore, di sinistra ma oltre le tradizionali categorie politiche etc. Come il M5S: un partito che cerca di raccogliere quello che si muove e cerca di risolvere la crisi della politica con la combinazione di effetto annuncio ed effetto immagine, salvo poi crollare nelle politiche materiali.
Non siamo certo noi a dover dire al Pd, ripetendo caricaturalmente lo schema retorico della sinistra extraparlamentare degli anni ’70 rispetto al PCI, cosa deve fare. Possiamo constatare che nei partiti nazionali, e questo vale per tutti, oggi si cerca di sopravvivere grazie a dinamiche di spettacolo (nelle quali si entra e si esce come le porte girevoli), cercando consenso istantaneo senza visioni strategiche. Quello che oggi tira, nei partiti nazionali, è la ricerca di un capro espiatorio da offrire alle dinamiche psicologiche dell’elettorato. La Lega ci riesce alla grande, assieme a un marketing intelligente dei propri effetti annuncio, e questo è un problema: grosso, vista la nuova ondata di terremoti che attende questo paese.
Il problema per noi è Livorno. Il movimento 5 stelle ha fallito come strumento di rilancio e rinascita della città. Lo si vede nel vuoto pneumatico di strategia che lo contraddistingue, a maggior ragione oggi quando avrebbe diversi ministeri chiave a Roma come possibile supporto. Ha fallito nella presunzione di governare da solo quando ha, consapevolmente, vinto le elezioni del 2014 per dinamiche territoriali che niente avevano a che vedere con il movimento di Grillo. Ci sta proprio che questa presunzione costi, al M5S locale, la rielezione. La politica è fatta di queste cose.

Ma cosa vuol fare il PD locale? Portarsi, sempre se ce la fa, al ballottaggio, provando l’effetto “al lupo al lupo” contro la Lega per prendere voti? Rischia una edizione locale dell’effetto Maria Elena Boschi, legittimare qualsiasi avversario, di fronte ai propri elettori prima ancora che tra quelli degli altri schieramenti. Suggerire a qualche giornalista la formula del centrosinistra allargato? Come marketing della sconfitta potrebbe funzionare.
Il problema appunto è, per quello che sta accadendo, che nessuno va a cena col Pd. E, come si è visto, nemmeno gli esponenti PD riescono a fissare un appuntamento tra loro. E chi si intestardisce su formule e politiche vintage è destinato a vedere solo una successione di sconfitte.

Silvano Cacciari