Il nostro Sistema Sanitario Nazionale (SSN), il primo servizio universalistico di garanzia delle cure voluto dal primo ministro della Salute donna Tina Anselmi, nel 1978, è stata una delle grandi conquiste del nostro Paese che molte altre nazioni invidiano.
Da anni è sottoposto a forti criticità, a cominciare dalle risorse economiche di cui è stato privato e di quelle dirottate anche indirettamente alla sanità privata (pensiamo alla detassazione delle misure di welfare aziendale), dalla regionalizzazione del sistema sanitario e delle esigenze degli equilibri di finanza pubblica che hanno portato a sacrificare la parte dei servizi sanitari tempestivi, uniformi, sicuri e innovativi su tutto il territorio nazionale, corrodendo di fatto il valore universale del servizio.
Mancano almeno 8 miliardi per riportare il finanziamento del SSN al 7% del PIL, cioè sullo standard medio europeo prima del contagio.
La coperta dell’investimento pubblico a livello statale e ancor più a livello delle amministrazioni locali sarà corta. Sono in ballo alcune scelte radicali e sarà una questione di criteri. Questi criteri saranno alla base del tipo di società che vogliamo costruire. È necessario e imprescindibile definire quali sono i servizi pubblici fondamentali a cui dare priorità e tra questi il primo è sicuramente quello sanitario. Era così prima, a maggior ragione deve esserlo durante e dopo la stagione del Covid-19.
Ripensare il ruolo del medico di base (medico di medicina generale) dovrebbe assumere importanza prioritaria.
La pandemia ha messo a nudo la frammentazione della nostra sanità, spezzettata in venti sistemi regionali diversi, ulteriormente divisi al loro interno fra sanità pubblica e privata. E tra medicina territoriale (medici di base, assistenza domiciliare, ambulatori) e strutture ospedaliere.
I medici di base rappresentano un ingranaggio fondamentale: hanno il contatto diretto con i malati, conoscono la loro storia e meglio di tutti dovrebbero valutare se hanno necessità di ricovero. Dovrebbero essere l’anello di congiunzione fra la comunità e l’ospedale. Ma in realtà sono stati (e sono) l’anello debole della lotta al virus. Non sono integrati nel SSN come dipendenti e non sono integrati nell’organico delle Aziende Sanitarie Locali. Sono liberi professionisti e non rispondono direttamente alle ASL. I distretti sanitari che dovrebbero coordinare la medicina territoriale non hanno un rapporto gerarchico con i medici di base e quindi non possono contare su di loro per le azioni di prevenzione e sorveglianza. Anche le Unità Speciali di Continuità Assistenziale, appena create, coinvolgono un numero esiguo di medici di base.
Sono tutte dinamiche e equilibri emersi prepotentemente e catastroficamente in Lombardia con la pandemia, ma valgono per tutto il resto del Paese. I pazienti sono stati lasciati soli e l’unico riferimento è stato, di fatto, il pronto soccorso.
Oltre ai medici di base sarebbe toccato ai servizi di prevenzione seguire e tracciare i malati, rilevare i loro contatti e in modo tempestivo lo scoppio dei focolai.
Questi servizi sono stati colpiti dai tagli al personale (in dieci anni il mancato turnover ha sottratto al sistema sanitario poco meno di 50.000 dipendenti), mentre il costo delle prestazioni acquistate dal privato accreditato è cresciuto del 3,5% ogni anno, dal 2002 al 2018. La spesa per le convenzioni con circa 54.000 medici di base è cresciuta del 2,3% e quella per dipendenti della salute pubblica solo dell’1,5 % per anno.
Una buona soluzione sarebbe quella di riportare la medicina generale dentro il servizio pubblico e i medici di famiglia dovrebbero diventare dipendenti pubblici, magari con una scuola di specializzazione per garantire una formazione come quella degli specialisti, mentre oggi si diventa medici di base attraverso un corso regionale.
Le carenze, le mancanze di risorse e le contraddizioni del nostro attuale Sistema Sanitario Nazionale sono parte dei motivi per cui non si è potuto applicare il piano pandemico che esiste dal 2008.
Temi e elementi che dovrebbero naturalmente essere inseriti nell'”hardware” rappresentato dal “contenitore” del nuovo ospedale a Livorno che rappresenta un incredibile vantaggio, almeno sulla carta: quello di essere il primo ospedale concepito e realizzato nel post Covid-19.
E che a maggior ragione dovrebbero far parte anche del dibattito delle prossime elezioni regionali e delle future scelte del Sistema Sanitario della Regione Toscana.
Stefano Romboli
gruppo sociale Buongiorno Livorno