In questi giorni abbiamo letto molti appelli per il NO al referendum, con motivazioni molto corrette e importanti.
Si motiva il NO dicendo soprattutto che il taglio alla spesa pubblica sarebbe comunque irrisorio (lo 0,007% del totale della spesa) a fronte di una forte diminuzione della rappresentatività dei nostri parlamentari. Infatti la riforma prevede di ridurre i seggi alla Camera da 630 a 400 e quelli al Senato da 315 a 200. Dopo la riforma l’Italia diventerebbe uno dei paesi con il più basso livello di rappresentanza politica in rapporto alla popolazione dell’intera Unione Europea.
Ciò che però ci preme sottolineare è che quando si parla di Costituzione, sistemi di governo e leggi elettorali sia doveroso fare un ragionamento più ampio e inserire la valutazione di questa riforma (votata peraltro a grandissima maggioranza da tutto l’arco parlamentare), all’interno di un processo storico e che tenga conto dei reali equilibri di potere cui siamo arrivati.
Sembra chiaro che questo sia, infatti, l’ennesimo tassello di un progetto, di una tendenza che viene da lontano e che, in modo trasversale, ha segnato le riforme elettorali e costituzionali (anche quelle abortite, vedi quella di Renzi- Boschi) degli ultimi venti anni almeno.
La tendenza è quella di “degenerazione” del modello democratico costituzionale e dell’equilibrio di convivenza nato dalla cultura politica del dopoguerra, che si basava sul sistema elettorale proporzionale puro e su una rappresentanza determinata dalla proporzione fra cittadini e parlamentari. Infatti fra il 1948 e il 1963 (anno in cui si cristallizzarono i numeri di parlamentari attualmente ridotto) il numero era mobile, mentre era fisso il rapporto con la popolazione: un deputato ogni 80 000 abitanti e un senatore ogni 200 000 (a fronte di un deputato ogni 151.000 e un senatore ogni 302.000 post riforma).
Quanto introdotto negli ultimi decenni, in primis i sistemi elettorali maggioritari (vedi referendum del 1993, che condusse a una modifica in senso prevalentemente uninominale maggioritario) i super premi di maggioranza (vedi leggi elettorali dal 2005 al 2015 con l’innesto su impianti proporzionali di cospicui premi di maggioranza, poi dichiarati incostituzionali) fino ad arrivare alla legge elettorale del 2017 (che ha reintrodotto i collegi uninominali, anche se solo per una parte di seggi), ma in un certo senso anche la legge elettorale regionale “Tatarella” del 1995, fino alle elezioni dirette dei Sindaci, hanno smontato il concetto di democrazia basata sul voto proporzionale, regalando grandi fette di potere a maggioranze spesso non reali e determinando, peraltro, anche uno sbilanciamento del baricentro del potere politico, dalle assemblee rappresentative a favore del’organo esecutivo.
Si è sacrificato sull’altare della governabilità l’uguaglianza della scelta politica delle cittadine e dei cittadine esercitata attraverso il voto.
In un sistema dove i governi, a tutti i livelli istituzionali, si trovano in dotazione maggioranze prefabbricate che li sostengono, è ovvio che le minoranze fatichino a svolgere anche il minimo ruolo di controllo, figuriamoci altro.
Crediamo pertanto che si debba riflettere molto su questo e inserire il dibattito in un quadro più ampio: andare a fare un taglio lineare dei parlamentari in un sistema come quello attuale significa andare ulteriormente verso questa tendenza, arrivando ad annullare la rappresentanza delle minoranze e delle opposizioni.
Siamo invece fermamente convinti che per poter innalzare il livello del dibattito politico, la partecipazione alla vita collettiva e anche la frequentazione delle urne, sia necessario invertire completamente questa tendenza.
Qui sta il punto, su questo le cittadine e i cittadini dovrebbero combattere, perché qui, in questi meccanismi elettorali, spesso complicati ed astrusi, risiedono i nodi del potere, stanno i meccanismi decisionali, si annida spesso la prepotenza istituzionale.
Il resto sono spiccioli.
Valentina Barale
Gruppo consiliare Buongiorno Livorno