A uno come Mirco Pacini puoi dire solo grazie.
In teatro è facile perdere la calma: ci sono decine di cose da fare e, il più delle volte, quasi tutte contemporaneamente. Ogni persona diventa un pezzo di una macchina e ogni oggetto – il cacciavite la carrucola la cantinella l’americana lontanissima o l’ultimo dei chiodini in quinta – prima o poi si anima (e si ribella) di vita propria, esattamente come le persone. Su tutto questo, ma senza dare mai l’impressione di essere “su”, di essere sopra (tanto che nemmeno sapevo fosse il capomacchinista), piuttosto quella di esserti vicino, c’era Mirco.
E c’era, ah se c’era. Avevi bisogno di qualcosa? C’era. Ti veniva un’idea? C’era. Serviva altro tempo? C’era. E te lo dava. Era suo, diventava tuo, diventava nostro. Non so se fosse la sua generosità o la sua mitezza; non so se fosse intelligenza – voglio dire, la capacità di intuire i legami delle cose tra loro, trovarli e legarli insieme – o cuore; non so se c’entrasse, come immagino, il suo essere un batterista o se, semplicemente, fosse fatto così, dall’insieme di tutte queste cose e di altre che non conosco, come conoscevo poco lui. So che quando c’era ero contenta.
Un anno fa a Lamberto Giannini venne l’idea di far piovere sul palcoscenico del Goldoni. Non due goccioline su un singolo attore in un piccolo teatro: no, bisognava che ci prendesse tutte e tutti – e parliamo di quasi ottanta persone, tante eravamo in scena con Mayor Von Frinzius per Tutti esauriti – su quasi 500 metri quadri. Mirco non fece una piega: “una soluzione si trova”, disse. E una soluzione trovò. Costruì una diavoleria di tubi, sospesa a mezzo cielo sul palco, dalla quale, grazie all’acqua che ci aveva pompato per tempo (“altrimenti non farebbe in tempo a scaldarsi sotto i riflettori e vi verrebbe addosso ghiaccia”), ci piovve addosso per tutto il finale. Il pubblico sulle prime pensò fosse solo un gioco dell’illuminazione: fondale nero, luci di taglio bianche a trasformare le gocce in rapidi lampi di luce sottile, nessuno credeva che là sotto ci stessimo bagnando. Fino a che l’acqua non ci inzuppò i capelli, le facce, i costumi, e noi cominciammo a grondare, e allora ricordo una frazione di secondo di silenzio e poi un “ooooh” sommesso di meraviglia. Perché se il teatro è davvero ancora magia lo è grazie a chi, con ore e ore di lavoro silenzioso, paziente, umile e geniale, e tranquillo anche nella concitazione del tempo che stringe (mollasse una volta la presa, accidentallui), riesce a farla scattare. A far diventare vere le idee, cose i sogni e macchina produttrice di desideri la scena.
Anche per questo ieri siamo stati in tanti a salutarlo nel sole. Avrei voluto che fossimo di più, perché questa città gli deve molto (rattrista la pressoché nulla attenzione che i media locali hanno dato alla notizia della sua morte, dimostrando ancora una volta di ignorare il patrimonio di eccellenze che Livorno ha, quasi a dispetto di sé. Del resto lui se ne sarebbe allegramente fottuto), e alcune assenze mi hanno pesato sul cuore. Ma eravamo comunque tanti. C’erano i suoi compagni di curva allo stadio, quelli che amava. C’era il personale del bar dove si andava a staccare per una birretta o un caffè. C’erano occhi rossi, persone che lo conoscevano da una vita o da poco e voci che giravano, e tutte ripetevano la stessa cosa: “ho imparato tanto da Mirco”. Il Goldoni è stato sul punto di chiudere per il suo funerale perché da chi lavora in biglietteria o in portineria a chi lo ha avuto come compagno e maestro sul palco, tutti, tutti hanno incrociato le braccia per esserci. Alla fine è stata trovata una persona che non lo conosceva (e che cosa s’è perso!) per l’ingresso, e chi aveva da far le prove s’è accontentato di un mixerino per la fonica e della luce naturale per vederci. Non sarà stata la stessa cosa: ma è tutto il Goldoni che non sarà più lo stesso.
L’ultima volta che sono entrata in teatro, il 6 giugno, sono andata a salutarlo: lui, come sempre, mi ha abbracciato con leggerezza.
“Allora ci si rivede presto, eh?”
“Ho saputo. Ah bene.”
E invece. Avrei dovuto dirgli grazie, e chi sa se finché ho potuto l’ho fatto abbastanza, grande e schivo mago della pioggia. Grazie.
Fiamma Lolli per il Laboratorio Culturale Permanente di #BuongiornoLivorno
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